mercoledì 28 luglio 2010

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Svuotato. Non volevo accadesse, eppure mi sento così. Svuotato.
Non riesco a piegarmi, il mio vero problema è questo. Non riesco a piegarmi, so cosa dovrei fare, so cosa sarebbe meglio per stare tranquillo ma non mi riesce proprio. Anche perché in realtà starei soltanto facendo ciò che la società mi dice di fare. Ora, non si dica che attribuire alla società i propri problemi sia da deboli, sia sgravarsi dalle proprie responsabilità; il problema è che chiunque ti stia vicino, quasi tutti, son stritolati dai doveri, dall’ideale di vita non dico perfetta, ma allineata. Tenersi sulla strada maestra. La difficoltà dunque non sta nell’appallottolare la carta dei doveri, ma dimenticarsi di quante delusioni spargerai attorno; gli occhi increduli, rabbiosi, delusi. La difficoltà sta nel tapparsi le orecchie e non dar peso ai rimproveri, alle accuse, alle parole di chi si aspettava altro. In fin dei conti, per quanto si possa essere dei solitari, spezzare i pochi legami che valgono è difficile;

Io so cosa devo fare perché tutto ciò non accada, ma non è quanto desidero per me. Ovvero, vorrei che chi mi sta attorno si senta felice per la mia stessa serenità, qualunque sia il modo in cui io la raggiungo. Vorrei essere più utile, più occupato, meno disimpegnato. Non coincide questo con il laurearsi, con l’affliggersi quella che per me è una punizione quotidiana. Non è l’adattarsi ad un qualunque mestiere “e poi nel tempo libero sei libero”. Io non mi sento mica schiavo dello scorrere dei giorni, degli anni, della vita. Ma dal non stringerla, del non godermela. Vorrei sentirmi utile, in una qualche maniera, in una certa misura. Andando oltre la banalità del “controllare” l’esistenza, questo si che è banale. Non è possibile, non abbiamo scelto di nascere, non scegliamo di morire, figurarsi se abbiamo tanta voce in capitolo sul resto. Ma per assurdo è qui che tutto si decide. Scegliere come non esserne padroni, visto che non lo si può essere fino in fondo. Timbrare ogni giorno un cartellino, tornare a casa e non aver energie per nulla, svuotati da tutto ciò che non ci interessa, che non ci appartiene, che non ci riempie. Aspettare le poche giornate libere per affrancarsi da un lavoro di merda, per una laurea del cazzo, per dei doveri vili: tutto questo è cedere un pezzo di se, quel poco che di noi stessi possediamo.

È un discorso che non per tutti vale il mio, c‘è chi si realizza così, e son sinceramente felice per loro. Ma io non son questo, non sono una laurea, un contratto a tempo indeterminato. Io non son servile.
La scelta è semplice: essere portati in palmo di mano se fai tutto quel che occorre, oppure schiacciati dallo stesso palmo che diventa un pugno stretto con te dentro.

Da bambini ci ripetevano sempre che siamo tutti uguali, in dignità e diritti, ma tutti siamo fatti in maniera diversa e tutte le diversità vanno rispettate. Poi un giorno se non sei troppo stupido capisci che siamo tutti uguali in doveri, alcuni hanno bel altri diritti, e nessuno deve avere una diversità.

Non riesco a piegarmi, mi avvilisce, ogni qual volta che ci provo.

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